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venerdì 6 novembre 2009

Tannhauser di Wagner (recensione)

Tannhauser di Wagner

Tannhauser ritorna a Roma dopo tanti anni, un ritorno importante che il pubblico mostra di apprezzare. Un lavoro che si potrebbe definire di maturita' giovanile, perché precedente ai Nibelunghi e ad altri capolavori della maturità, ma allo stesso tempo non ingenuo, limpido, gravido di percorsi tematici, artistici e musicali, che qui sono ancora brevi sentieri ma che più avanti diverranno grandi viali.
La prima rappresentazione di Dresda del 1845 venne diretta dallo stesso Wagner, con la nipote Johanna nella parte di Elisabeth, ma si ebbe una continua rielaborazione e meditazione, tanto che alle soglie della morte il compositore non la considerava completata.

La versione che si propone attualmente è la la cosiddetta "versione di Parigi" del 1861, nella quale si adottano alcune ulteriori modifiche eseguite per la rappresentazione di Vienna del 1875.
Chi ama e conosce Wagner, tanto o poco, riconosce subito i primi leitmotiv, ovvero temi abbinati ad un personaggio o ad uno stato mentale, costruzioni musicali che saranno poi tipiche delle colonne sonore cinematografiche: l`entrata in scena di un carattere viene ogni volta sottolineata da un tema di poche note oppure più articolato che lo spettatore, anche e sopratutto a livello inconscio, riconosce e percepisce come indicazione di personalità.

In Tannhauser si potrebbe parlare non di un personaggio ma di uno stato d`animo che ritorna nel coro dei pellegrini, introdotto nella prima parte della celeberrima Ouverture (citata anche in una canzone di Battiato e comunque utilizzata spesso da televisione e cinema).
La storia, apparentemente semplice e moralista, ha sfumature complesse, proprio come la musica wagneriana dove il tema melodico nitido e riconoscibile è continuamente arricchito di variazioni, sfumature, profondità.

Tannhauser, come giustamente osserva il regista, potrebbe essere paragonato ad un popolare cantante dei nostri giorni, con il suo carisma ma anche con la dignità di non cercare una soluzione sicura e semplice, ma di essere cosciente delle proprie debolezze: una continua insoddisfazione che lo porta a non ritrovarsi in nessuna condizione, abbandonando Venere ed il suo paradiso dei sensi (geniale il rivelarsi in questo allestimento, risolto dalla videoarte di Roberto Rebaudengo e Matthias Schnabel) per cercare la vita di corte, esserne a sua volta allontanato per non riuscire ad adattarsi alle sue regole, cercare la redenzione nel pellegrinaggio ma anche in questo non riconoscersi, insomma esserci o non esserci, sino alla risoluzione finale dove il sacrificio di Elizabeth metterà Tannhauser dinanzi alla ineluttabilità della scelta.

La regia del M.o Filippo Crivelli, dopo tanti allestimenti altrui, non solo wagneriani, all`insegna della modernizzazione, della sperimentazione, sceglie quasi un omaggio ad uno dei suoi maestri, Zeffirelli, di essere tradizionale, davvero wagneriano, spettacolare e solenne, aggiungendo come si è già detto alle essenziali scenografie, un disegno di luci mozzafiato che descrive paesaggi, stati d`animo, mondi immaginari (luci di Agostino Angelini).

Molto applaudita la direzione nitida e perfetta del giovane Daniel Kawka e la prova sicura nel ruolo di Elizabeth di Martina Serafin. Menzione per gli infiniti costumi di artisti e comparse, curati da Anna Biagiotti.

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