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giovedì 26 giugno 2014

Zitto, dall'interno notte di un teatro all'esterno notte in un parco.

La suspance, ben gestita, rende l'atmosfera noir carica di tensione. Particolari evidenti, indizi, nascosti negli oggetti di scena e tra le parole che i due personaggi si scambiano. 
 
Effetti, contrasti e opposti che si consumano tra il nero ed il bianco, bene e male dell'esistenza.

Strutturare un racconto noir per il teatro è operazione ambiziosa. Parliamo di Zitto, spettacolo proposto nella sezione Corti Teatrali.  
Alla sua I° edizione grazie all'iniziativa del Teatro Millelire di Roma, tenutasi dal 7 al 12 gennaio scorso.   

Un corto di 20 minuti scritto da Mariano Riccio e Giovanni Giudice e diretto da Daria Veronese, musiche originali di Marco Pupa e luci a cura di Massimo Sugoni.

Zitto è nato così, poi è stato riadattato da Andrea Alessio Cavarretta in occasione del Fringe Festival di Roma.  Per tre serate, dal 16 al 20 giugno, la performance di 50 minuti, ha riscosso consensi positivi e il risultato omogeneo è stato frutto di un lavoro di ri-scrittura e di ri-composizione del dialogo tra i due personaggi.

Gli attori, Mariano Riccio, Giacinto, e Giovanni Giudice, Miaj, interpretano il noir in modo lineare e tranquillo.  Di solito l’atmosfera, in questo tipo di storia, si rende cupa e tetra, la distinzione tra buono e cattivo non esiste e, proprio perchè non tutto viene svelato, invita a riflettere, a trarre conclusioni personali su ciò che si è visto. Dare senso interpretativo a tutto il quadro scenografico, svoltosi all’aperto, è impresa. Credo, infatti, che, caratteristica importante e lampante, tra teatro, spazio chiuso, e teatro organizzato all’aperto, sia stata quella di aver lavorato sulla diversa gestione della regia, pulita, senza fronzoli, e sui movimenti degli attori. Un lavoro perfetto realizzato da Daria Veronese della Capsa Servie che produce lo spettacolo.

La trama si snoda intorno Miaj, rumeno e Giacinto, italiano. Un preambolo parlato, come per la chiusa, prepara l’entrata di Giovanni Giudice in scena, dall’esterno. Si aggira chiedendo l’elemosina, è un immigrato, di quelli che zoppicando e mostrando le loro mutilazioni, infondono pietà  Mariano Riccio è intento a leggere appoggiato su un muretto. Siamo all'esterno  ed è sera.

I due entrano in contatto. La comunicazione ambigua e ricca di riferimenti e paragoni infonde un senso di tensione. Giacinto, dopo aver donato poche monete a Miaj tiene a precisare che è buono con le persone buone, anche se non sembra esserne convinto, pur predicando la Parola del Signore riportata sulla Bibbia. Dopo un primo breve dialogo Giacinto invita Miaj in casa. Interno notte, un appartamento,  una stanza. Essa è sfondo e proseguo di questo nero dove l’arredamento è vecchio stile, solo un pianoforte si confonde come tale e l’ambiguità verrà svelata durante lo spettacolo. Una bottiglia di rosso sul tavolo è sinonimo di ospitalità. Il vino rosso riscalda i cuori, affoga i dispiaceri.

Il ritmo tra una poetica decadentista, che fa riferimento a Boudelaire con I fiori del male, e paragoni insistenti ed incalzanti, è un insieme di simboli a cui di fa riferimento come, appunto, la margherita, metafora di purezza, bontà e innocenza. Pallida Margherita, mia Margherita, così bianca e fredda,  non sei tu forse come me un sole autunnale?

Il verso riadattato, gioco di parole, è in contrapposizione con il nero del climax circostante.
Il bianco del fiore ed il nero, opposti, come lo sono la bontà e la cattiveria, quest’ultima, si cerca di combatterla? Forse si arma una battaglia nel ridare un ordine, un senso di giustizia?
Satana, il Diavolo, Giacinto, si trasforma nel seduttore del mondo, per sconfiggere il male, Miaj, mettendolo di fronte alla sua menzogna. Un sentimento che si ritiene opportuno affermare, quindi, è quello di dire la verità, che redime le anime. Quasi come perdonare.

Mariano Riccio ben coadiuva la sua parte con una mimica facciale che ne supporta la recitazione, mentre invece Giovanni Giudice ha lavorato bene sull’esercizio caro agli attori, la dizione.
Non credo sia stato facile interpretare un dialetto che non ci appartiene, lontano, di un Paese straniero quale la Romania.
Non è forse anche questo un messaggio?
Chi rappresenta l’extra-comunitario per noi? Nel nostro Paese?
Non ci si fida mai, tranne in casi particolari.

Comprendere il senso di Zitto è arduo. Di sicuro lo spettacolo andrebbe visto più volte per addentrarsi nell’atmosfera fuligginosa del palco e seguire gli attori passo passo e carpire il mistero celato in loro. Nelle loro anime.

Annalisa Civitelli

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