Mercoledì 23 ottobre debutta al Teatro della Tosse di Genova ANTIGONE di Jean Anouilh, con la regia di Emanuele Conte, che firma anche la scenografia insieme a Luigi Ferrando.
Protagonista sarà la giovanissima Viviana Strambelli, con Enrico Campanati nel ruolo di Creonte, accanto a loro Pietro Fabbri, Francesca Agostini, Mauro Lamantia e Marco Lubrano.
(Qui a seguire, un link da cui scaricare una prima gallery fotografica che documenta l'allestimento: https://www.dropbox.com/s/sitb6456ylipmae/SCELTA%20FOTO%20ANTIGONE.zip)
Mentre
le prove sono ancora in corso, Emanuele Conte ci racconta il
percorso di queste ultime stagioni rispondendo a qualche domanda.
Quest'anno,
per la prima volta, affronti due grandi classici teatrali. Hai
presentato un suggestivo e originale adattamento in chiave dark-rock
del Sogno di una notte di mezza estate (che dopo il debutto a Genova
nella scorsa stagione sarà al Teatro Eliseo di Roma dal 19 al 24
novembre): uno spettacolo tutto incentrato sulla contrapposizione tra
la libertà dell'adolescenza e l'ordine apparente ed infelice della
maturità. Ora porti in scena Antigone nella versione di Anouilh,
l'emblema tragico dell'assolutezza della ribellione giovanile.
Questo
lavoro viene subito dopo il sogno e ho iniziato a pensare alla
possibilità di metterlo in scena mentre ero ancora impegnato con lo
spettacolo precedente. Anche qui l'adolescenza con tutti i suoi impulsi
è centrale. Nel sogno si parla di aspetti più emotivi e intimi,
centrale è la sessualità, e questo ardore si spegne con l'arrivo
dell'età matura. In Antigone si vede cosa accade se questi ardori non
vengono bloccati ma si lasciano crescere. Lo scontro tra Antigone e
Creonte però non è solo generazionale, ma è ovviamente uno scontro tra
il potere costituito e la forza rivoluzionaria di Antigone. Inoltre in
Antigone ci sono delle spinte narcisistiche. La scena è bianca. Dei
lenzuoli coprono gli oggetti in scena e danno un senso di precarietà.
Sta a simboleggiare un passaggio e quindi la precarietà di questo
tempo. Creonte è il simbolo della fine di questa epoca.
Hai
iniziato a lavorare in teatro giovanissimo, come macchinista, tecnico
luci, direttore di scena, per approdare - dopo l'apprendistato con un
maestro del calibro di Lele Luzzati - alla scenografia e, infine, alla
regia. Un percorso insolito nel panorama italiano. Cosa ti ha dato
questa esperienza?
Mi
ha dato la possibilità di conoscere affondo tutti i mestieri del
teatro, vedere come funziona il Teatro e in particolare questo teatro (il Teatro della Tosse). Ho
iniziato come fonico- elettricista e poi light designer un mestiere
di frontiera, nel senso che è a metà strada tra l'artistico e
l'artigiano ma mi ha aiutato a sviluppare un occhio registico, che mi è
tornato utile nel proseguo della mia carriera. All'inizio ho lavorato
molto con mio padre e con altri registi come Trionfo, Crivelli e
Marcucci che hanno cambiato il teatro italiano, trasformandolo in un
teatro moderno. Per me è stata una bella scuola, così come fondamentale
è stato il rapporto con Luzzati che mi ha insegnato a gestire lo
spazio e la scena. È stato importante anche incontrare tecnici e
innovatori, mi piace citare Pepi Morgia light designer. Ovviamente è
stata una bella fortuna anche nascere e vivere a Genova, che dal punto
di vista teatrale è sempre stata una città vivace, con un forte
fermento culturale a partire dagli anni sessanta.
Il
tuo debutto alla regia, nel 1998, è un adattamento del primo romanzo
di John Fante, La strada per Los Angeles: un testo letterario piuttosto
distante dalla tradizione del Teatro della Tosse. Perché questa
scelta?
Non
so cosa significa "un testo nella tradizione della Tosse". La Tosse
ha messo in scena di tutto, affrontando autori, temi e suggestioni
diverse tra loro. Sicuramente l'ambiente in cui sono cresciuto mi ha
influenzato ma è stato un punto di partenza per altre strade, strade
che mi interessavano. La scelta del romanzo di Fante è molto semplice:
mi piaceva e conteneva dell'ottimo materiale per una trasposizione. Ho
iniziato a lavorarci, una grossa mano me l'ha data Aldo
Ottobrino, e alla fine l'ho messo in scena. Mi sono divertito e
soprattutto ho capito di sentirmi a mio agio nel ruolo di regista. Sono
partito da un romanzo, dalla parola scritta perché per me la scrittura
è l'essenza, la sostanza da cui parte tutto il resto.
Paladini
di Francia, Alice nella casa dello specchio, Ionesco, Il viaggiatore
onirico da Boris Vian, Gran Bazar delle mille e una notte... Scorrendo i
titoli dei tuoi allestimenti, sembra di poter individuare, in sintonia
con la tradizione in cui ti sei formato, una particolare attenzione al
mondo del fantastico e dell'immaginario.
Si
deve distinguere tra produzioni estive e non. Per quanto riguarda le
produzioni estive da diverso tempo lavoro insieme ad Amedeo
Romeo per la stesura del testo e con Luigi Ferrando per quanto concerne
le scene. Due artisti con cui mi trovo molto bene e in sintonia. Le
produzioni estive hanno un loro target preciso, come ad esempio per i
lavori presentati ad Apricale. Per quanto riguarda le produzioni
invernali il discorso cambia. È difficile non trovare qualcosa di
originale nelle mie regie. 2984, il viaggiatore onirico, la regola del
gioco e Sogno sono gli ultimi titoli diretti. Certo il surrealismo, i
lavori di Jarry, Vian e quel tipo di cultura mi hanno sempre
affascinato e fanno parte della tradizione della Tosse, ma ho sempre
cercato un rinnovamento. Ad esempio per il Sogno ero partito con
un'idea più legata alla tradizione della Tosse, allestire lo spettacolo
in tutti gli spazi del teatro, salvo poi cambiare idea man mano che
lavoravo sopra al testo. Mi interessa rimettermi in gioco mettendo in
scena il testo che in quel momento mi interessa. La tradizione è un
punto di partenza non di arrivo.
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